“Un viaggio chiamato vita” è una raccolta di saggi autobiografici di Banana Yoshimoto in cui l’autrice giapponese ripercorre in modo disordinato lo sconfinato archivio dei suoi ricordi, lasciando liberamente emergere riflessioni e opinioni personali. Il fil rouge del libro è il racconto della vita come viaggio, ma non necessariamente come spostamento spaziale o temporale:
“La sola cosa che non cambia mai è una sensazione che precede ogni viaggio: non tornerò uguale a prima. Credo che sia la sensazione più importante, quando ci si mette in viaggio. In fondo ogni giorno è un viaggio”.

Lo stile
Lo stile narrativo è delicatissimo. La Yoshimoto racconta la sua vita con grande sensibilità, senza occultare dolori, delusioni ed errori. Il risultato è una narrazione onesta e spontanea, come può esserlo una chiacchierata tra amici. Il lirismo delle descrizioni di paesaggi e rituali giapponesi regala immagini suggestive e affascinanti, intrise di affetto e nostalgia. Nonostante la contestabile originalità delle riflessioni, l’associazione di cliché e frasi fatte al succinto ma poetico racconto di aneddoti di vita infiammati dalla carica emotiva del cuore della scrittrice conferisce notevole spessore a ogni episodio. In questo senso, Banana Yoshimoto utilizza le trivialità della sua vita quotidiana per illustrare la saggezza di alcuni cliché, nutrendo una trita verità con nuova linfa vitale, fino a trasformarla in una illuminazione folgorante e commovente.
“Occupata com'ero a lamentarmi per il caldo, avevo lasciato finire l'estate e mi ero fatta sfuggire tanti paesaggi che potevo vedere solo in quella stagione, e che non sarebbero tornati mai più."
“Quello che possiamo portare, invece, sono i ricordi, tanti da non poterli tenere tutti. Sicuramente ci saranno anche brutti ricordi. Però forse quando moriamo, anche quelli si trasformano in bei ricordi. E, mi domando, accumulare bei ricordi, non è forse la sola cosa che possiamo fare nella vita?"
Gli affetti, la socialità e la società giapponese
L’autrice rimprovera alla società giapponese di ostentare una maschera di cordialità per camuffare il progressivo disinteresse nei confronti degli altri esseri umani. Secondo Banana Yoshimoto, la prime vittime di questa tendenza sono le donne:
"E in un sistema freddo, che non concede un attimo di respiro, afflitto da tutti questi problemi, è alle giovani donne che si chiede di tenere la casa in ordine, di restare belle nonostante l'avanzare degli anni, di essere aggiornate, di abbandonare valori superati ma allo stesso tempo di andare d'accordo con i genitori e con i suoceri, di sostenere il proprio uomo, di mettere al mondo bambini."
Il dilagante individualismo dei Paesi occidentali sembra aver contagiato anche l’Oriente, facendo dimenticare ai cittadini più frenetici la necessità ancestrale dell’essere umano di costruire rapporti affettivi a cui radicare la propria esistenza. La vita ha più significato quando la condividiamo con gli altri, quando regna la gentilezza e la preoccupazione per la sofferenza del prossimo è genuina. Non è forse anche questo, la civiltà?
"Una città in cui in modo del tutto normale circolino bambini, donne incinte, anziani e persone sulla sedia a rotelle, ma senza che li si soffochi di attenzioni, con le sole strutture necessarie e lasciando che per il resto le persone si aiutino a vicenda, usando la testa... questa è una città fatta di esseri umani"
Prendersi cura degli altri, che siano esseri umani, animali o piante, è una panacea per lo spirito. È forse questa spiritualità orientale che affascina di più il lettore. La narrazione è sempre pervasa di magia, di un mistero atavico che si manifesta proprio nella connessione dell’uomo con gli altri uomini e con il mondo naturale.
"Quel giorno di pioggia, il giorno più triste, avevo compreso perfettamente che l'anima del mio cane era venuta a dirmi addio. Fino ad allora avevo pregato perché mi fossero concessi ancora sei mesi, ma un messaggio era arrivato fino a me, silenzioso: "Non può più sforzarsi, non vuole più sforzarsi, ma soffre perché deve separarsi da te".
"Quel cactus è ancora a casa mia, e sta bene, ma non appena si secca un po' mi torna in mente quella signora e faccio di tutto perché si riprenda. Penso che ogni contatto con forme di vita diverse da noi aggiunga un buon sapore all'esistenza."
Conclusione
“Un viaggio chiamato vita” è un libro attraversato da una profonda vena di nostalgia, ma soprattutto pervaso da una abbondante dose di speranza e fiducia nell’essere umano. È una celebrazione della vita, della gioiosa lotta contro il nichilismo e contro un individualismo ormai troppo cinico che ha dimenticato il piacere della condivisione e il calore dell’affetto di una persona cara.
“Tutte le cose di questo mondo un giorno non ci saranno più, e non importa quanta voglia avremo di andare: non si potrà andare. E allora in questa vita voglio accumulare tantissimi ricordi.”
È l’eroica scelta di costruire una vita piena di ricordi meravigliosi, di vedere il bicchiere sempre mezzo pieno e di soffermarsi sulle piccole gioie ed esserne grati.
“Abbiamo solo trascorso del tempo insieme, nella consapevolezza che nella vita succede di tutto. Mi ricordo perfettamente che, sebbene non avessimo condiviso nulla delle storie che ci portavamo dentro, mi sentii sollevata. Così come ci sono momenti tristi e difficili, siamo anche in grado di divertirci senza freni: la vita funziona alla perfezione.”
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