Domino - Recensione

Pubblicato il 28 giugno 2021 alle ore 12:00

Vi siete mai chiesti come si finisce nel vortice delle estorsioni, dei debiti e dell'usura della mafia? Ma soprattutto, vi siete mai chiesti come se ne esce?
A queste domande risponde coraggiosamente Barbara Cagni nel suo primo romanzo Domino.
Si tratta di un romanzo ibrido che intreccia una vicenda autobiografica a una narrazione polifonica in cui i membri della famiglia Belli prendono la parola uno ad uno per condividere in modo diretto le loro intime confessioni e le loro più segrete paure. In tutto il libro scorre una profonda vena di malinconia, il sentimento dolce e amaro di chi racconta l'inizio a partire dalla fine, ben consapevole della sofferenza che dovrà risvegliare.


Il romanzo in breve 

La famiglia di Pietro Belli, composta dalla moglie Maria, e i figli Giorgio e Margherita, si trasferisce a Mesnate, nelle campagne milanesi, alla fine degli anni Settanta. Pietro è un giovane imprenditore ed è proprietario di un'azienda di cosmetici. Da un giorno all'altro, si trova di fronte a un losco individuo, sinistro ambasciatore di un'offerta che non può rifiutare. Comincia un periodo di menzogne, prelievi improvvisi e continui di grandi somme di denaro, minacce e ricatti, fino all'ingresso di Sessa. Uomo distinto e rispettato, Pietro si convince che sotto la sua ala nessuno potrà più fargli del male, e accetta di collaborare. La protezione e il successo concordati, tuttavia, rimangono solo mirabolanti promesse e, una volta resosi conto di aver circondato la sua famiglia di criminali e malavitosi, Pietro torna sui suoi passi. Confessare tutto alla polizia sembra l'unica soluzione. Ma la giustizia gli volta le spalle. Non resta che un'ultima estrema via di uscita: la fuga. Il trasferimento a Castellorocca non reca il sollievo sperato: la nuova casa è in pessime condizioni, gli affari vanno male e Giorgio e Margherita sono infelici e spaventati. Quando il momento è propizio, la famiglia ritorna a Mesnate, ma con loro tornano i fantasmi del passato e i ricatti degli sciacalli. Le tragedie si susseguono una dopo l'altra senza sosta, fino all'arresto di Pietro per bancarotta fraudolenta. Maria mostra una forza titanica occupandosi dei figli, compresa l'ultima arrivata, la piccola Velia, e bussando a ogni porta per riuscire a scagionare il marito. Pietro viene finalmente rilasciato, ma la sua scarcerazione non è che l'inizio dell'ultima salita. Dopo un travagliato tiro alla fune con la banca, Pietro è costretto a cedere anche l'ultimo dei suoi averi: la casa. Solo così potrà ripartire da zero.


Opinioni

Ho letto questo libro con la consapevolezza che l'avrei vissuto in modo molto intimo e personale. Sono cresciuta in un minuscolo paesino della campagna lombarda, e l'atmosfera che dipinge Barbara Cagni nel libro mi fa sprofondare nei ricordi, quando ascoltavo attenta le storie di mia nonna e della sua vita da giovane sposa proprio negli anni Settanta.
Il romanzo è narrato come una cronaca, e gli avvenimenti sono riportati con un certo distacco. Nonostante si assuma il punto di vista di diversi personaggi, la voce narrante non subisce alcuna modifica stilistica, e non si dà ai protagonisti una voce che li contraddistingua. Anche il profilo psicologico resta appena abbozzato. E tuttavia, in questa scrittura oggettiva si percepiscono sottili sfumature emotive. È sorprendente che, nonostante l'intenzione dichiarata dall'autrice sia la denuncia di un'ingiustizia, non sono la rabbia e l'indignazione a prevalere. Anzi, durante la lettura ho avuto la netta sensazione che l'accento non fosse posto affatto sulle attività mafiose in cui è stato coinvolto Pietro Belli o sul mancato intervento della giustizia, quanto piuttosto sulle relazioni familiari, in particolare quelle tra il padre e i figli. Di fatto, la narrazione procede in modo talmente rapido e asciutto, che si ha l'impressione che vengano presentati solo pochi tasselli del "domino", e che molti altri siano stati taciuti.
Quello che ha catturato la mia attenzione, invece, sono i numerosissimi indizi che conducono alla ricostruzione del rapporto ambiguo con il padre. Nonostante Pietro Belli sia dipinto come la vittima di un'ingiustizia, si percepisce un latente risentimento nei confronti dell'uomo che ha rovinato l'infanzia e la giovinezza dei figli per inseguire una grande ambizione personale. Solo nel suo più grande momento di debolezza si parla di Pietro come una vittima:

"Personaggi della stessa razza dei due strozzini cominciarono a orbitare intorno a mio padre. Era come un animale accasciato su cui sorvolavano rapaci in attesa del momento migliore per scendere in picchiata a strappare gli ultimi vitali lembi di carne."

In molti passaggi, invece, Pietro è caratterizzato come un uomo con un orgoglio smisurato, che spesso sconfina in un delirio di onnipotenza:

"In macchina mio padre sorrideva e fischiettava. - Marghe, oggi è un grande giorno. Il tuo papà è diventato un imprenditore. Pensai che doveva essere una cosa speciale.
Sono uno importante, sai? [...] Aveva ragione la mamma quando mi ripeteva che nella vita sarebbe riuscito a fare qualsiasi cosa, e avrebbe sempre risolto tutto."

"In quegli istanti lo riconobbi, con le sue illusioni, sempre più grandi, con la sua smania da sfamare, con quel qualcosa dentro, una pazzia, un desiderio, un genio, un vuoto."

Anche la moglie sembra credere ciecamente nelle abilità del marito, arrivando a convincersi a sua volta della sua "onnipotenza":

"e poi la mamma non accettava il fatto che lui non ce la facesse"

Pietro è consapevole della propria sete di ricchezza e potere, eppure in molte occasioni questa prevale, conducendolo ripetutamente su un sentiero pericoloso. Durante una cena in mezzo a ricchi malavitosi, Pietro si sente realizzato:

"Ero lusingato, su quella terrazza, in mezzo ai potenti, mi sentivo come loro. Roma, Milano, America, soldi, soldi e ancora soldi."

Una volta uscito di prigione, però, la sua miseria lo costringe a fare i conti con la realtà:

"La rabbia, l'ostinazione, la sete di vendetta avevano deformato la percezione della realtà e mi avevano indotto a compiere scelte sbagliate. [...] Le cose materiali avevano un valore che non ero mai stato in grado di attribuire loro. Era stata una corsa folle, la mia, alla ricerca di qualcosa che mai avrei potuto avere. [...] Sono un uomo che ha sbagliato, ecco cosa sono."

Durante l'infanzia e l'adolescenza, Giorgio e Margherita cominciano a provare risentimento nei confronti dei genitori, ma vivono la propria condizione come una tragedia ingiusta e inevitabile, crollata addosso ai genitori:

"Pensandoci bene, eravamo come radici che assimilano nutrimento dal terreno. Assorbivamo le paure e le angosce dei nostri genitori, rielaborandole attraverso la poca esperienza di vita che avevamo."

Verso la fine del romanzo, tuttavia, vengono disseminate alcune affermazioni che ci invitano a sospettare che la caccia al colpevole si è conclusa, e le tristi vicissitudini dell'infanzia non sono più considerate un danno collaterale dell'ingiustizia subita da Pietro e Maria, ma sono solo il prezzo dell'ambizione smisurata del padre, e del sostegno irragionevole della madre. L'ingenua accettazione della situazione drammatica prende la forma di un giudizio accusatorio, pur sempre smorzato da una abbondante dose di affetto e compassione:

"Li vidi ancora persi nel mare del loro passato, avvinghiati alle alghe infestanti delle proprie convinzioni. Naufragati e affogati, in tutti quegli anni, avevano sviluppato una sorta di branchie per sopravvivere negli abissi."

"Non farti illusioni sui genitori. Sono così e basta. Ormai un cambiano più."

In conclusione, Domino è un libro scritto per necessità, ed è questo che rende la lettura così amara e intensa. Barbara Cagni posa lo sguardo sul suo passato con la delicatezza con cui si accarezza una vecchia foto ingiallita. Non ha bisogno di approfondire il profilo psicologico dei protagonisti perché al centro della storia ci sono le relazioni familiari, e la complessità e l'ambiguità di questi legami sono radicate intimamente in ciascuno di noi.

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