La Compagnia dei Celestini - Recensione

Pubblicato il 25 giugno 2021 alle ore 13:00

Stefano Benni è un autore che si ama o si odia. Per capire in un istante a quale delle due categorie appartenete, date una sbirciatina al suo sito web e spendete un minuto per leggere la sua (auto)biografia (chi l’ha già letta capirà il motivo di questo suggerimento).
Benni ha l’invidiabile talento di rivestire di comico qualsiasi situazione, strappando una risata irriverente anche nei momenti più tragici. Le sue parodie e la sua satira pungente scatenano grasse risate che lasciano tuttavia un retrogusto amaro nel momento in cui ci si rende conto che i mondi immaginari in cui sono ambientate le sue storie non sono affatto surreali, ma ricalcano in modo caricaturale la nostra realtà sociale.
Il romanzo di cui vi parlo oggi è la quintessenza della commistione del comico e del tragico, e si intitola La Compagnia dei Celestini.


Il romanzo in breve 

Ci troviamo a Banessa, nella ridente terra di Gladonia. La scena si apre sul buio e sudicio orfanotrofio di Santa Celeste, dove un maleodorante Don Biffero sta servendo una pietanza dagli ingredienti improbabili - tra i quali il famigerato cavolo diavolo. Una catastrofe svela l’esistenza di una antica profezia misteriosa, di cui nessuno conosce la vera interpretazione e che tuttavia sembra realizzarsi passo dopo passo. Ai nostri piccoli eroi, gli orfanelli Memorino, Lucifero e Alì si presenta un’occasione di fuga: il Campionato di Pallastrada. Il campionato è un evento segreto a cui possono partecipare solo squadre composte da cinque bambini orfani. Nella spericolata avventura verso il luogo segreto in cui si terrà il campionato, i nostri eroi incontrano Celeste, Deodato e gli incredibili gemelli Finezza, il fiore all’occhiello della pallastrada. La fuga dall’orfanotrofio si trasforma ben presto in un inseguimento in cui gli antagonisti rincorrono spietatamente le proprie intenzioni individuali: Don Biffero e Don Bracco sperano di insabbiare la faccenda prima che la notizia raggiunga le alte autorità ecclesiastiche, e il giornalista Fimicoli, con l’assistente Rosalino, si affida al suo fiuto sognando l’agognato scoop della trasmissione in diretta del clandestino Campionato di Pallastrada.
Dopo peripezie che comprendono travestimenti, incomprensioni, inganni, scambi di identità e identità ritrovate, il libro si chiude con l’avverarsi della profezia di Santa Celeste in una apocalisse che spazza via buoni e cattivi. 


Considerazioni stilistiche

Lo stravagante sguardo sulla realtà di Benni si riflette in uno stile letterario unico in cui i registri si mischiano tra loro, regalandoci frasi ibride che combinano parole raffinate, neologismi e lievi volgarità, suscitando un formidabile effetto comico. I momenti tragici vengono riportati con la leggerezza di una battuta, mentre i momenti di spensieratezza e gioco acquisiscono la formalità di un evento solenne.
La fantasiosa creatività di Benni raggiunge l’apice nella redazione del Codice della Pallastrada, e nella partita di “Facciamo”, straordinario esempio della illimitata fantasia dei bambini e della prontezza di spirito dell’autore. Indimenticabili anche i fratelli Pelicorti e la loro arte sacra ironicamente blasfema.
Da atea e anticlericale, ho trovato esilarante la satira della Chiesa, di cui vi lascio un piccolo assaggio tratto dal primo capitolo: 

"Si potevano guardare le ballerine e gli strip senza musica, e questo secondo Don Biffero ridimensionava grandemente il peccato, perché il culo è opera del Signore, il sax del Diavolo."


Caricatura e critica alla società 

La comicità di Benni non si estingue nella caricatura, ma rivela una critica talvolta polemica nei confronti delle “malattie” della società attuale. "La storia ci insegna che dalla storia nessuno ha imparato": quasi trent’anni dopo la pubblicazione di questo libro, la critica che contiene è ancora dolorosamente attuale, e le “malattie” sociali continuano a esistere.

"Chi si aspettava urla, rabbia, spavento, apocalisse, fu deluso. [...] Altri ancora pensarono alle vicende che avevano preceduto quel giorno fatale e dissero: come abbiamo potuto permettere tutto questo? E imploravano di avere un giorno per rimediare, un altro giorno soltanto!” 

 La narrazione ci mostra la cruda indifferenza dei personaggi di fronte all’ingiustizia, l’accettazione di realtà come la povertà, la corruzione e la guerra senza un briciolo di indignazione. Si riflette sull’origine del degrado della civiltà, invitando anche le generazioni precedenti a un mea culpa

"Ma che generazione è mai questa che non ha altri ideali che vacanze, vestiti e carburatori? Quanto sono diversi da noi, che parlavamo di filosofia e amore, e di come cambiare il mondo. [...]
"Non so che dire," disse Pantamelo "se non che quello che fanno, essi lo hanno imparato da qualcuno."
"Non certo da noi," disse Algopedante "i nostri sogni erano migliore dei loro"
"Forse," disse Pantamelo. "Oppure abbiamo sognato che i nostri sogni fossero migliori".

Si polemizzano le illusioni che ciascuno di noi si rifiuta di allontanare per soffocare il grido della coscienza che ci ricorda che siamo tutti responsabili della miseria di un altro, specialmente quando questa è il risultato di un’ingiustizia: 

"Un'orda di sieropositivi, accattoni, tossici, zingaroidi, boat-people e soprattutto badate bene, di disoccupati e affamati, ci accerchia. Non possiamo più confinarli nei telegiornali e negli special. [...] Sono troppi! Come possiamo respingere il loro assedio? Solo con una svolta nell'immaginario collettivo. Spiegando che la loro sorte è felice e pianificata. Dilapidammo bilanci, ma per svegliarli dal torpore del benessere. [...]
Lo so, suona strano. Ma pensate che per anni abbiamo con tranquillità sostenuto che la libertà era un'automobile, la famiglia una spaghettata, l'aria buona una mentina e così via. Ebbene, chi ci impedirà di far entrare nella testa della gente che dopo la razza eletta che pubblicizzava ogni branca del bevibile del commestibile e del vendibile, non siano oggi i barboni, i defedati, i pezzenti e i morti di fame a costituire l'immagine vincente del duemila? Povero è bello! È nobile patire la fame, è emozionante soffrire il freddo. Glielo ficcheremo in testa!"

Ogni personaggio antagonista è caratterizzato da un egoismo e una avidità senza limiti. Coloro che sono ricchi e potenti non si fanno scrupoli a volersi appropriare dell’unica cosa che è ancora prerogativa dei poveri orfani: la pallastrada. E mentre questi, come tutti i bambini, prendono sul serio il loro gioco e rispettano un loro codice d’onore, gli adulti non fanno che ingannarsi e mentire, facendo precipitare la situazione in una orribile tragedia. Il finale del libro è amaro, perché amara è anche la realtà: “spesso il destino non distingue tra colpevoli e innocenti".

Così tutto fu bene ciò che finì e basta”: non esiste né protezione né punizione divina. Non è il cielo a ristabilire l’ordine o a regalarci il lieto fine. Il compito di punire i colpevoli, difendere gli innocenti e cancellare le ingiustizie spetta solo a noi. 

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